Su un'isola di plastica del Pacifico prosperano le specie marine
Il mare aperto, già di per sé, non è considerato un habitat ideale per i pesci, in quanto solitamente è un ambiente in cui non c’è abbastanza cibo, e per di più i rifugi per ripararsi scarseggiano. Se a tutto questo si aggiunge un’enorme quantità di rifiuti di plastica molto dannosi per gli ecosistemi marini, può venire spontaneo credere che in queste aree le forme di vita siano poche e - in ogni caso - destinate progressivamente a scomparire. Ma non è così.
Un esempio quanto mai sorprendente viene dalla tristemente famosa isola di rifiuti di plastica del Pacifico del nord (il Great Pacific garbage patch), dove il numero di animali marini presenti è in continua crescita. Tutto questo è stato messo nero su bianco in un articolo scientifico pubblicato poche settimane fa sulla rivista Nature Communications, che ha analizzato la nascita di comunità viventi capaci di prosperare a lungo in un ambiente in apparenza non adatto, come quello oceanico. In termini tecnici si parla di comunità neopelagiche, ossia di origine recente e radicate in mare aperto - dal greco pèlagos. La maggior parte delle specie identificate in queste comunità sono in realtà di origine costiera, aprendo le porte al tema dei cambiamenti ecologici nell’ambiente marino e alle implicazioni che queste dinamiche possono avere nel prossimo futuro.
L'isola di plastica nel Pacifico
Il Great Pacific garbage patch è talmente grande da essere perfettamente visibile anche dallo spazio. Si tratta di una distesa di spazzatura galleggiante, principalmente in plastica, grande più o meno quanto il Canada (o la penisola Iberica, per stare in Europa) e collocata in mare aperto nell’oceano Pacifico. Si calcola che contenga oltre 80mila tonnellate di rifiuti, in continua crescita, e rappresenta il più grande ed eclatante esempio di inquinamento delle acque di origine antropica.
Questi rifiuti sono rimasti intrappolati in vortici acquatici o correnti circolari, e si sono distribuiti dalla superficie dell’acqua fino al fondo degli oceani, dove il loro deterioramento è ancora più lento e difficile. Il problema principale del Great garbage patch, come di tutte le altre numerose isole di rifiuti in giro per il mondo, è che i frammenti di plastica dei rifiuti si confondono con il plancton, elemento alla base della catena alimentare negli ecosistemi marini. Come risultato, tantissimi pesci e altri animali muoiono perché rimangono incastrati nella plastica, oppure per averla ingerita in grandi quantità.
A oggi pensare di potere bonificare questa enorme area sembra impossibile, sia per la quantità di rifiuti sia per le loro caratteristiche. Il loro deterioramento, giorno dopo giorno, sta provocando la formazione di molte microplastiche sempre più difficili da rimuovere e da contenere.
I nuovi inquilini delle distese di plastica
Nell’isola di plastica del Pacifico i rifiuti si muovono costantemente con un moto circolare, formando una sorta di substrato stabile e un habitat semi-permanente. In quest’area, così ampia, si sono creati degli ecosistemi dalle prospettive molto incerte, costituiti da comunità non abituate a questo ambiente.
Le nuove condizioni hanno permesso a molte specie costiere di proliferare in mare aperto, dove prima non sarebbero potute sopravvivere. La comunità neopelagica è costituita da un mix specie tipiche dei mari aperti e da animali marini che di solito colonizzano i fondali poco profondi. Tra le specie più presenti, come riscontrato dallo studio su Nature Communications, ci sono gli idrozoi (Aglaophenia pluma, del phylum degli Cnidari) e gli anemoni di mare. Specie che si sono adattate a vivere su substrati marini galleggianti, utilizzati anche come zattere ed elementi di difesa da un ambiente esterno inospitale. E gli anemoni, in particolare, hanno anche iniziato a mangiare le microplastiche.
Non è la prima volta che queste specie marine sono state avvistate in gran numero lontano dalle coste. Infatti, le prime testimonianze risalgono a una decina di anni fa, dopo lo tsunami del 2011 in Giappone: moltissimi esemplari naufragarono dalle coste verso il cuore dell’oceano Pacifico, viaggiando per oltre 6mila chilometri, traghettati dai rifiuti di plastica. E fu proprio da questo evento epocale che emerse come i rifiuti non biodegradabili potessero costituire delle piattaforme abitabili per specie neopleagiche.
Un futuro incerto
Il fatto che molte specie costiere possano sopravvivere in mare aperto in condizioni molto differenti dal loro habitat naturale lascia aperte tantissime domande. Anzitutto, in che modo le comunità da millenni presenti in queste aree reagiranno alla condivisione degli stessi spazi con le nuove specie? Tutto questo potrebbe determinare un danno agli ecosistemi oceanici, creando nuove forme di competizione per lo spazio e per le risorse a disposizione. Nulla si sa anche a proposito delle trasformazioni che le specie costiere potrebbero subire nei prossimi anni, in termini di mutazioni genetiche, epigenetiche e non solo.
Inoltre, l’inquinamento della plastica degli oceani è destinato ad aumentare nei prossimi anni, con conseguenze difficilmente prevedibili: da un lato potrebbe aumentare la diffusione delle specie costiere nell’oceano, dall’altro potrebbe assumere il ruolo di barriera fisica e biologica che impedisce alle specie di disperdersi. Per esempio, un fenomeno simile a quello registrato nel nord del Pacifico è stato individuato anche nelle zone più a sud dello stesso oceano, dove è presente la South Pacific garbage patch. E la situazione non è molto migliore nemmeno nell'oceano Atlantico, dove le zone di vaste dimensioni coperte da rifiuti di plastica sono sempre di più.