La vitamina D aiuta a combattere il Covid-19?
Da quando abbiamo iniziato a convivere con la pandemia di Covid-19, circa 16 mesi fa, medici e scienziati hanno cercato tutte le possibili soluzioni per rendere il virus meno aggressivo e ridurre i danni che provoca infettando una persona. Diverse ricerche sono state condotte, in particolare, per stabilire se una carenza di vitamina D possa in qualche modo influenzare il rischio di avere conseguenze severe dalla polmonite e dagli altri sintomi provocati dal Sars-Cov-2.
Le evidenze scientifiche - va detto - sono ancora poche, ma nonostante questo il mercato degli integratori contenenti vitamina D ha registrato una forte crescita. Per fare chiarezza sulla reale utilità di questa sostanza nel contrastare il nuovo coronavirus, in Canada è stato condotto uno studio genetico, i cui risultati sono stati pubblicati a inizio giugno sulla rivista Plos Medicine.
Vitamina D: ossa, alimentazione e sole
La vitamina D è molto importante per il nostro organismo e svolge una serie di funzioni essenziali per il mantenimento dello stato generale di salute. In particolare, agisce sull’apparato osseo favorendo la giusta concentrazione di calcio e fosforo, e in parallelo favorisce anche la nostra attività antiossidante.
Inoltre, stimola la funzionalità del sistema immunitario, riducendo la possibilità di insorgenza di tumori e altre malattie. Assumere la giusta dose di vitamina D con la dieta non è semplice, visto che è contenuta in dosi significative solamente in pochi cibi come fegato, uova, olio di fegato di merluzzo, formaggi grassi e alcuni pesci.
Una soluzione corretta per ottenere la giusta dose quotidiana di questa vitamina è trascorre del tempo all’aperto, esponendosi con le giuste precauzioni ai raggi solari. La vitamina D, infatti, viene sintetizzata dal nostro corpo a partire dall’assorbimento dei raggi solari attraverso la pelle, dunque esporsi al sole può compensare eventuali carenze dovute all'alimentazione.
Contro il Covid-19 non fa la differenza
Dalle varie indagini condotte negli ultimi mesi sono emersi dati contrastanti riguardo alla relazione tra vitamina D e Covid-19, che di fatto hanno complicato la produzione di linee guida comuni e condivise.
Il già citato studio pubblicato su Plos Medicine, realizzato dai ricercatori della McGill University, ha tentato di fare chiarezza analizzando le varianti genetiche umane in un mastodontico campione. Delle persone analizzate, provenienti da 11 paesi diversi, 14mila erano affette da Covid-19, mentre altri 1,28 milioni non avevano mai contratto l'infezione.
In sintesi, dallo studio non è stata rilevata alcuna associazione significativa tra livelli più alti di vitamina D e la riduzione (né l'aumento) del rischio di contagiarsi o di sviluppare la malattia in forma più severa. Lo stesso vale per il rapporto con i casi più gravi, ossia ricoveri e decessi, per i quali il livello di vitamina D è apparso sostanzialmente irrilevante.
Un focus particolare della ricerca è stato quello di analizzare le persone con una predisposizione genetica ad avere valori più alti di questa vitamina, mostrando che questa predisposizione non è d'aiuto nel contrastare il Covid-19. E certificando quindi come non sia utile assumere integratori per alzare i livelli di vitamina D oltre quanto normalmente suggerito, poiché una più alta disponibilità di questa sostanza non produce alcun effetto rispetto al Covid-19.
I limiti dello studio e le prospettive di ricerca
Complessivamente, a oggi non ci sono evidenze scientifiche sufficienti che suggeriscano l’efficacia dell’assunzione di integratori alimentari a base di vitamina D per la riduzione del contagio e delle complicanze del Covid-19. Anzi, semmai la letteratura scientifica disponibile sembra puntare nella direzione opposta, ossia della sostanziale inutilità di questi integratori in persone sane.
Lo studio però non si può definire conclusivo, anzitutto perché di fatto si è focalizzato sulle persone con predisposizione genetica ad avere concentrazioni più alte di vitamina D, mentre non si è concentrato sulle carenze di questa sostanza. Un’altra limitazione di questo studio, da non sottovalutare, riguarda il fatto che sono state considerate solo persone di origine europea e nordamericana, trascurando quindi quella variabilità tra etnie diverse che - come per altre patologie - potrebbe giocare un ruolo.
Insomma, come ammettono gli stessi scienziati, è necessario approfondire ulteriormente l’argomento prima di giungere a risposte definitive. Ciò che invece si sa già per certo è che le persone che non soffrono di carenza di vitamina D non hanno motivo di assumere integratori, perché da una sovrabbondanza della vitamina D non otterrebbero alcun tipo di beneficio.