Gli smartphone ricondizionati sono la via per la sostenibilità?
Non serve certo essere dei guru dell'ambientalismo per rendersi conto di come una prassi di utilizzo degli smartphone che si fonda sull'idea di sostituirli spesso, peraltro buttando il vecchio senza scrupoli, non sia affatto virtuosa. E non è un caso che anche in un paese come l'Italia, in cui il numero complessivo di telefonini attivi ha abbondantemente superato quota 40 milioni, si faccia spazio il trend del riciclo e del riuso.
Una pratica che sta emergendo in modo sempre più netto è quella degli smartphone ricondizionati, ossia rimessi in vendita come oggetti high tech di seconda mano dopo essere stati controllati, verificati, rinnovati nelle parti non più utilizzabili e rimessi (per quanto possibile) a nuovo. Spesso con risultati più che buoni. A fare da incentivo all'acquisto di questi dispositivi, oltre alla questione ambientale in sé, sono soprattutto i prezzi molto più accessibili rispetto al nuovo, la presenza di forme di certificazione e garanzia da parte dei rivenditori e la possibilità di acquistare modelli ormai introvabili.
A seconda dei casi, il risparmio varia da un terzo del prezzo originale fino a un -80%, con i migliori affari che di solito arrivano per i modelli datati dai 24 ai 36 mesi, quindi ancora molto attuali e performanti ma scontati (in media) di un 30% abbondante. Un mercato che è esteso a livello globale: già nel 2019 sono stati venduti oltre 200 milioni di smartphone ricondizionati, ed entro i prossimi 2 o 3 anni si prevede di sfondare il muro dei 300 milioni annui. Vale a dire, a spanne, un potenziale quarto della compravendita totale dei telefonini, contando che ogni anno ne vengono piazzati poco meno di un miliardo e mezzo.
Tutti i vantaggi ambientali del ricondizionato
Il primo punto a favore del riuso degli smartphone in termini di ottimizzazione delle risorse è, naturalmente, che non si butta via nulla. I rifiuti elettronici prodotti a livello globale hanno abbondantemente superato quota 50 milioni di tonnellate l'anno, e meno di un quinto di queste vengono effettivamente recuperate come materie prime seconde. Senza nemmeno citare i vari modi legali e illegali con cui vengono gestiti gli altri quattro quinti, va da sé che uno smartphone buttato in meno significa alcuni etti di materiali risparmiati dalla discarica.
Per di più, c'è una fondamentale questione di materie prime. Da una parte ci sono i materiali più abbondanti e meno preziosi, come silicio, plastica, ferro, alluminio, rame, piombo, stagno e nichel, che insieme compongono oltre il 99% del device. E dall'altra ci sono elementi presenti in piccole quantità, ma fondamentali per il funzionamento e soprattutto molto pregiati e rari. Non solo metalli preziosi come argento, oro e platino, ma anche bario, palladio e cobalto, terre rare come gadolinio, ittrio, neodimio, disprosio e praseodimio, oltre ad altre miscele come la columbite-tantalite. Risorse poco presenti sulla Terra e già oggi con un costo di estrazione (economico, ambientale e umano) ben poco sostenibile.
Alcune materie vengono prelevate dalle profondità marine con il cosiddetto deep sea mining, notoriamente dannoso per i fondali, altri con il coinvolgimento di manodopera schiavizzata o minorile, o magari entrambe le cose. E per ottenere i 2 etti circa di prodotto finito serve prelevare quintali di roccia, da cui estrarre i pochi grammi di ciò che occorre.
Al costo delle materie prime si somma poi quello di lavorazione. Misurato in termini di anidride carbonica (equivalente), un processo di ricondizionamento fa risparmiare i cinque sesti delle emissioni rispetto a una produzione ex novo. E se le stime sono leggermente diverse a seconda di chi le ha calcolate, tutti concordano che il risparmio in termini di impronta ecologica e di emissione di gas climalteranti sia tra il 70% e l'80%. A cui va combinato, come ulteriore dato statistico, che chi acquista ricondizionato tende a cambiare modello meno spesso, generando un ulteriore effetto leva positivo.
Alternative di sostenibilità
Smettere di acquistare ciò che è appena uscito dalla fabbrica a favore del ricondizionato non è l'unica strada possibile. Anzi, oggi sono tante le iniziative da parte di grandi e piccole aziende, enti e associazioni che puntano a superare il paradigma dell'obsolescenza precoce e del gettare in discarica quello che non si usa più. Anche perché se la sostenibilità è ormai entrata in profondità in tutti gli aspetti della nostra vita, dal cibo ai trasporti, è evidente che lo stesso debba accadere pure per l'elettronica di consumo.
Una prima possibilità concreta è rappresentata dal cosiddetto urban mining, che anziché cercare le materie prime in fondo al mare o scavando nella roccia punta a raccogliere materie prime seconde direttamente in città, da ciò che le persone smettono di utilizzare. In sostanza un sistema di raccolta differenziata, che però si concentra sui materiali più pregiati e importanti contenuti nei nostri device. Si dice che ne potrebbero nascere pure dei business interessanti.
E l'altro grande filone, anche per contrastare la perdita di fette di mercato dovute ai player del ricondizionato, è che le stesse aziende produttrici si incamminino a passo svelto sulla via della sostenibilità. Possibilità banali sulla carta, ma improbabili all'atto pratico, sono che si opti per smartphone di taglia inferiore, per ridurre la quantità di materiali impiegati, oppure che si abbandoni la pratica dell'obsolescenza programmata e del continuo rilancio di nuovi modelli tra loro mal compatibili.
Più verosimile, invece, che le aziende produttrici stesse puntino su riciclo e riuso. Nei prossimi anni potremmo quindi vedere i principali rivenditori di telefonini gettarsi a loro volta (e con più decisione) nel mercato del ricondizionato, e creare procedure più efficienti e praticabili per le riparazioni. Oppure, come ipotesi forse più plausibile di tutte, i produttori potrebbero stimolare la buona pratica del riciclo dei materiali, con promozioni pensate per incentivare la riconsegna del vecchio al momento dell'acquisto del nuovo. Un trend che già oggi è realtà - anche se non in modo sistematico - e che potrebbe rappresentare una soluzione win-win-win a vantaggio tanto delle aziende quanto dei consumatori e dell'ambiente.