Covid-19, dove e quando ci si contagia di più
Le chiese o i ristoranti? Le scuole, le palestre o i centri commerciali? Sono mesi che in tantissimi si interrogano su quali siano i posti dove più spesso avviene la trasmissione del nuovo coronavirus Sars-Cov-2, ma dalla ricerca scientifica una risposa definitiva ancora non c'è. E probabilmente non arriverà mai: da molti studi, infatti, emerge che più che la tipologia formale del luogo sono decisive una serie di altre caratteristiche e circostanze.
In Giappone spesso si sintetizza lo scenario con la cosiddetta regola delle tre C (tradotta in lingua inglese). Gli spazi a più elevato rischio contagio sono quelli chiusi e con poca ventilazione (closed), quelli particolarmente affollati e in cui si creano assembramenti (crowded) e quelli in cui si sta tipicamente a stretto contatto con altre persone (close-contact). A cui va aggiunto, poi, il grado di rispetto delle altre precauzioni anti contagio, partendo dall'uso della mascherina.
Un importante cambio di punto di vista suggerito dalla comunità scientifica, e compreso solo dopo diversi mesi dall'inizio della pandemia, è che il contagio non avviene in modo uniforme, ma si manifesta attraverso eventi di superdiffusione. Eventi, appunto, e non persone: i casi di grande contagio non sembrano infatti essere attribuibili a caratteristiche o responsabilità della specifica persona, ma imputabili piuttosto alle caratteristiche del luogo in cui la superdiffusione è accaduta. La vera domanda, dunque, è dove sia più probabile che condizioni del genere si vengano a creare.
I diversi approcci al problema
Nella letteratura scientifica - e più in generale nelle ricerche condotte nel corso del 2020 - si vedono almeno tre tipi di metodi. In alcuni casi si è tentato di determinare il livello di rischio dei vari luoghi in base alla catena dei contagi, ossia attraverso un'indagine di contact tracing sui contatti stretti paziente per paziente, e poi estesa fino ad avere una statistica affidabile. In altri si è invece ragionato più in teoria, ossia si è valutato quali fossero gli elementi peculiari di ogni luogo tali da rappresentare un rischio. In altri ancora ci si è affidati ai big data, combinando informazioni sugli spostamenti delle persone con simulazioni al computer. E naturalmente non tutti gli studi puntano esattamente nella stessa direzione, pur trovandosi in accordo su parecchi elementi.
Ma vediamo alcuni esempi. Una ricerca pubblicata sulla rivista Nature e che ha riguardato 98 milioni di cittadini statunitensi (monitorati per tre mesi nelle grandi metropoli) ha individuato in bar, ristoranti, palestre e alberghi con sala ristorante gli ambienti a massimo rischio, anzitutto perché tengono le persone in spazi chiusi e ristretti per periodi di tempo molto lunghi. Va però aggiunto che lo studio - che si è avvalso di modelli matematici - non ha considerato altre tipologie rilevanti come scuole, carceri e strutture sanitarie. Significativo però il risultato secondo cui con una chiusura oculata di un 10% delle strutture si potrebbero ridurre i contagi di oltre la metà.
Secondo un'indagine condotta in Puglia, in cima alla classifica di rischio andrebbero posizionati (oltre ai soliti bar, ristoranti e palestre) i cinema, i teatri, i mezzi pubblici, le chiese e i macelli. Insieme naturalmente a discoteche, carceri e stadi. E se le scuole non sono state inserite ai piani alti della graduatoria - come peraltro anche supermercati, biblioteche e musei - figurano ad alto rischio i buffet, le feste al chiuso, gli aerei e i bagni pubblici.
Come già anticipato, però, è importante guardare anche alle condizioni al contorno. Per esempio, insieme alla densità di persone presenti in un luogo è decisivo il tipo di attività praticata: dove si canta o si tende a parlare molto, a ridere o a urlare, infatti, il problema dei droplet è più marcato, così come in quelle circostanze in cui si mangia o si beve e dunque si resta senza mascherina. Oppure, un altro elemento che sembra favorire la diffusione del virus è l'umidità combinata con temperature basse, che può riguardare i macelli ma anche molti altri luoghi.
Aneddoti e contaminazioni
Un ulteriore modo di guardare al tema, assumendo per ipotesi che la carica virale trovata in giro sia proporzionale alla probabilità di contagiarsi, è di andare a cercare tracce di virus sugli oggetti. In questo senso una ricerca condotta dalle università di Tuft e Berkeley ha individuato come luoghi ad alta contaminazione da Sars-Cov-2 le metropolitane, i negozi, i soliti ristoranti ma anche cassonetti, bancomat e distributori di carburante. Va comunque sottolineato che a oggi si ritiene che la gran parte dei contagi avvenga direttamente da persona a persona, e che la trasmissione tramite oggetti infetti sia possibile ma non molto frequente.
Sempre indagati scientificamente, ma di fatto relegati a casi singoli, sono alcuni eventi di superdiffusione diventati quasi aneddotici. Il caso di un ascensore in cui un solo asintomatico ha infettato oltre 70 persone, il ristorante in cui il sistema di aria condizionata ha trasmesso il virus tra persone che si trovavano ai lati opposti della stanza, i gruppi corali in cui una singola persona ha infettato la quasi totalità dei colleghi, poi i pullman e aerei in cui si è verificata una diffusione estrema, anche quando la persona infetta era già scesa. Non è una sorpresa, comunque, che in spazi molto angusti e frequentati, con poco ricambio d'aria, i problemi siano maggiori. Nelle scuole, invece, alcune indagini hanno puntato il dito soprattutto verso gli insegnanti, che parlando per molto tempo e a voce alta possono più facilmente trasmettere carica virale.
Infine, è noto già dalla prima ondata della pandemia che una quota molto significativa dei contagi avviene in ambito domestico. E anche escludendo i casi in cui si organizzano cene e feste in casa (trasformando il salotto nell'equivalente di un ristorante o di una discoteca), tra conviventi la trasmissione è particolarmente comune. Tuttavia, i contagi tra familiari sono molto più difficili da scongiurare, e quindi le misure di contenimento puntano verso altre tipologie di limitazione.
Quando ci si contagia
Ovviamente si può ricevere il virus in qualunque momento. La trasmissione agli altri, invece, è stata abbastanza circoscritta nel tempo da una serie di pubblicazioni su riviste specialistiche. Secondo una ricerca condotta a Oxford, che ha conclusioni in linea con il consenso scientifico più generale, si è più contagiosi nei 2-3 giorni prima della comparsa dei sintomi e nei 2-3 giorni immediatamente successivi alla manifestazione dei segni da Covid-19.
Il che pone, come è facile intuire, due ordini di problemi. Il primo è che una persona non può sapere di diventare sintomatica a breve, e l'altro è che in diversi casi la malattia è in forma così blanda che la persona infetta nemmeno si accorge di esserlo, e dunque anche nella fase sintomatica (che è poi di fatto senza sintomi percettibili) continua a trasmettere il virus. Le statistiche in questo caso non lasciano spazio a dubbi: il 42% dei contagi avverrebbe nella fase asintomatica, e un altro 50% circa da parte di individui che non manifestano mai sintomi. Insomma, le trasmissioni da parte di persone che stanno già male, e che per esempio hanno tosse, febbre o raffreddore, sarebbero meno del 10% del totale.
Anche dal punto di vista di chi fa da diffusore del virus, la dinamica involontaria è quella degli eventi di superdiffusione, in cui solo poche persone in specifiche circostanze riescono a contagiarne molte altre. Per esempio, Science ha stimato che il 70% dei positivi non abbia infettato nessuno, e che appena un 8% degli infetti abbia determinato da solo il 60% dei contagi. E Nature ha pubblicato uno studio che ne conferma la sostanza: l'80% dei contagi sarebbe avvenuto attraverso appena il 15% (o meglio, tra il 10% e il 20%) degli infetti. Una minoranza inconsapevole che, involontariamente, determina l'ondata di contagi. Di fronte a l'unica soluzione è proteggere se stessi e gli altri in tutti i casi, anche laddove non si percepisce il rischio.