Il 2020 è stato catastrofico per l'Amazzonia
Se l'anno peggiore in assoluto per le foresta amazzonica sia stato il 2020, oppure il 2019, è questione di punti di vista e della statistica a cui si fa riferimento. Una cosa però è certa: entrambe le annate sono state decisamente nere, tanto che l'ultimo biennio è stato per l'Amazzonia una vera catastrofe. C'entra il riscaldamento globale, naturalmente, ma secondo gli esperti delle agenzie nazionali e internazionali sta avendo un ruolo importante anche la linea politica dettata dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Non si tratta solo di negazionismo del cambiamento climatico a parole, infatti, ma di un'azione di governo che nei fatti promuove - o quantomeno non osteggia - la distruzione dell'ambiente. E dato che l'ambiente in questione è il cosiddetto polmone del pianeta, uno straordinario bacino di biodiversità dove tra le altre cose viene prodotto il 10%-12% dell'ossigeno sulla Terra, tutto ciò non è affatto una buona notizia.
La distruzione della foresta amazzonica in numeri
Nei dodici mesi del 2020 sono stati segnalati e registrati complessivamente 103.161 incendi, circa 16mila in più rispetto al 2019, segnando un incremento in un solo anno del 15,6%. Da questo punto di vista, il 2020 è stato decisamente un anno terribile per l'Amazzonia.
Non va molto meglio se si guarda all'estensione della superficie di foresta andata effettivamente distrutta. Si parla di 8.426 chilometri quadrati finiti in fumo in un solo anno, che si vanno a sommare ai 9.178 del 2019. La lieve contrazione dell'ultimo anno non è una gran notizia: la media del biennio si è infatti assestata sugli 8.802 chilometri quadrati persi ogni anno, quando nel recente passato (per esempio negli anni dal 2016 al 2018) la media annua era di 4.845. In pratica, i numeri si sono raddoppiati.
A tutti questi dati, puntualmente forniti dall'Osservatorio brasiliano sul clima e dall'Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile Inpe, si aggiungono poi dati altrettanto allarmanti per l'ultimo mese, quello di dicembre 2020. In quei 31 giorni sono andati distrutti 216 chilometri quadrati di foresta, segnando un +14% rispetto allo stesso periodo del 2019. E gli ulteriori aggiornamenti in tempo (quasi) reale sono raccolti in una mappa interattiva offerta dalla stessa Inpe.
L'effetto Bolsonaro e l'effetto pandemia
L'arrivo del Covid-19, almeno sulla carta, avrebbe potuto determinare un rallentamento degli incendi in Amazzonia, soprattutto nella misura in cui le misure anti-contagio hanno ridotto le attività umane anche in Brasile. Purtroppo, questo effetto sembra non trasparire dai bilanci di fine anno, che anzi suggeriscono un consolidamento del trend di peggioramento. Quello che sembra delinearsi, almeno secondo l'opinione delle 50 principali organizzazioni ambientaliste brasiliane, è lo scenario peggiore tra quelli che erano stati preventivati negli scorsi anni. Da quando Bolsonaro è in carica, ossia dal 1° gennaio 2019, il tasso di distruzione della foresta amazzonica ha fatto segnare un +81%.
Anche se è molto difficile determinare e dimostrare un rapporto di causa-effetto nel senso più scientifico dell'espressione, a detta di molti l'impennata degli incendi nell'ultimo biennio non è una semplice coincidenza, ma è indirettamente dovuta alla linea politica del governo brasiliano. Al di là del già citato negazionismo climatico a parole (a cui si è aggiunto anche un certo negazionismo e una volontà di minimizzazione nei confronti della pandemia), ci sono precisi provvedimenti che hanno a che fare con l'ambiente. E nello specifico con la regione dell'Amazzonia. Per esempio, all'interno della foresta sono autorizzate attività di estrazione mineraria, di sfruttamento del legno, di allevamento di animali di grossa taglia e persino di coltivazione intensiva.
Tutte queste attività, che sono ovviamente causa della depauperazione delle risorse ambientali amazzoniche, sono in alcuni casi perfino incentivate tramite specifiche agevolazioni fiscali. Sono peraltro permesse anche all'interno delle riserve dove vivono popolazioni indigene. E infine pare esserci un certo lassismo nei controlli, tanto che anche in quei casi in cui lo sfruttamento della foresta va oltre i limiti di legge si tende più spesso a lasciare correre che a prendere seri provvedimenti.
Non brucia solo l'Amazzonia
Il problema degli incendi non è, ovviamente, esclusivo della foresta amazzonica. Per restare nell'America meridionale, interessatissima dai roghi è anche la regione del Pantanal, un'immensa pianura alluvionale che si trova in gran parte nel territorio brasiliano ma si estende anche in Bolivia e in Paraguay. Negli Stati Uniti il 2020 è stato un anno peggiore del precedente: a metà dicembre risultavano già oltre 57mila incendi, mentre in tutto il 2019 ci si era fermati a quota 50.477. Non si tratta però di un record in negativo, perché nel 2018 gli incendi erano stati 58mila, e nel 2017 addirittura 71mila. Da notare, comunque, che l'anno scorso quasi la metà delle aree di foresta distrutte si trova in California.
Sotto attento monitoraggio sono ovviamente anche l'Australia, dove la terribile stagione degli incendi iniziata a giugno 2019 si è protratta fino a febbraio 2020, e poi la Siberia, l'Alaska e la Groenlandia. Anche se il trend non è - per fortuna - di solo e continuo peggioramento, in generale il riscaldamento globale sta creando terreno fertile per lo sviluppo di incendi: periodi di siccità sempre più lunghi che interessano aree sempre più vaste e ondate di caldo anomalo creano la combinazione perfetta affinché gli incendi possano attecchire e diffondersi, e le conseguenti emissioni in atmosfera creano un circolo vizioso che alimenta ulteriormente il fenomeno. Già nel 2015, per esempio, Nature mostrava chiaramente l'effetto del cambiamento climatico sui roghi dell'ultimo trentennio, stimando fra le altre cose che la durata della stagione degli incendi sia aumentata in media del 20% circa.