Emergenza tumori, la pandemia ha frenato le diagnosi precoci
È un'emergenza invisibile e impercettibile quella che il settore dell'oncologia sta vivendo in questi mesi. Un grido d'allarme che si è levato da più voci, ma che al momento non riesce a trovare risposte nei fatti. E sul medio termine tutto ciò potrebbe avere effetti drammatici sulla salute degli italiani (e non solo) proprio come la pandemia di Covid-19.
Lo sappiamo bene: con l'arrivo dell'emergenza sanitaria e l'effetto monopolizzante del nuovo coronavirus Sars-Cov-2 sono state penalizzate molte altre aree dell'assistenza sanitaria. Sono stati occupati posti in terapia intensiva che sarebbero stati utili ad altri malati, sono raddoppiate le morti per infarto a causa della ritrosia nel recarsi al pronto soccorso, sono stati rimandati interventi chirurgici e alcuni reparti ospedalieri sono stati ridotti, chiusi o convertiti in aree Covid-19. E qualcosa di analogo è successo anche per i pazienti affetti da tumore, inclusi quelli che non sanno di esserlo.
Se da un lato è proseguita senza interruzioni l'assistenza ai casi oncologici che necessitano di trattamenti continui, dall'altro ci grossi problemi che hanno riguardato l'attività di monitoraggio: anzitutto su chi avrebbe dovuto sottoporsi a visite periodiche ed esami di follow up, e poi per svolgere la fondamentale attività di screening, utile per l'identificazione e la diagnosi precoce di nuovi tumori. Il 2020, in questo senso, ha segnato un passo indietro gigantesco, vanificando buona parte del grande sforzo collettivo compiuto negli ultimi anni, peraltro con un trend che pareva essere particolarmente virtuoso.
L'emergenza in numeri
Non occorre essere guru della statistica per cogliere la gravità della situazione. Già a maggio, quindi con l'effetto della sola prima ondata, l'Osservatorio nazionale screening stimava che per l'Italia mancassero già all'appello delle diagnosi oltre 2mila casi di tumore al seno, quasi 4mila di tumore al colon-retto, 1.600 alla cervice uterina e cifre dello stesso ordine di grandezza per molte altre neoplasie. Il tutto corrispondente a un calo nel numero assoluto di screening superiore al 50%, con punte per alcuni tipi di controllo del 70%-75%. Il picco del problema si è manifestato a maggio, quando solo 5 regioni italiane sono riuscite a mantenere un'attività pari ad almeno il 20% di quella ordinaria, mentre altre 13 regioni non hanno - per esempio - eseguito alcun test di screening mammografico.
Ma in che cosa potranno tradursi questi ritardi? Un esempio quantitativo è stato riportato nel corso dell'estate in una pubblicazione scientifica uscita sulla prestigiosa rivista Science. Un documento in cui si evidenzia, anzitutto, che la coda lunga degli effetti dei mancati screening si farà sentire almeno per tutto il decennio, fino al 2030. Per i soli Stati Uniti, e sempre con riferimento alla prima ondata di contagi, si stima che ci sarà un eccesso di mortalità per cancro al seno di oltre 5mila persone, più altre 4.500 circa per il tumore al colon-retto. E questo tenendo conto di come la letalità dei tumori aumenti progressivamente mano a mano che la diagnosi viene ritardata.
E non solo: secondo i dati raccolti dalla Fondazione Cesare Serono e pubblicati nel mese di novembre, l'effetto della pandemia ha continuato a farsi sentire anche nei mesi successivi al primo lockdown, tanto che la riduzione nel numero di test eseguiti resta percentualmente uguale anche considerando i mesi successivi. E il bilancio appena tracciato dalla Fondazione Umberto Veronesi ha messo in evidenza che è pesantissima anche la flessione delle diagnosi in età pediatrica. Naturalmente in questo caso siamo nell'ordine delle decine e non delle migliaia di casi, ma il calo è sempre attorno al 50%.
Da evidenziare, infine, che le diagnosi arrivate nel corso dell'estate e dell'autunno sono risultate complessivamente più tardive del solito, e di conseguenza ci si attende un tasso di sopravvivenza ai tumori diagnosticati inferiore rispetto a quanto registrato negli ultimi anni.
L'effetto della seconda ondata
La ripresa dei contagi e il nuovo picco dell'epidemia in Italia hanno determinato il ripetersi delle stesse dinamiche di marzo, aprile e maggio. Al momento è ancora presto per trarre bilanci complessivi ma, dato che le analogie con la prima ondata sono molte, è ritenuto ragionevole che anche a livello di screening e diagnosi si possano avere numeri confrontabili.
Elementi come la paura del contagio che tiene lontani dagli ospedali, la riduzione in intensità dell'attività di routine per lo screening e le necessarie precauzioni sanitarie sono infatti tornate con l'arrivo della stagione fredda. E se nel corso della prima ondata l'effetto era stato più intenso e localizzato, con la seconda il fenomeno ha riguardato sostanzialmente tutto il territorio nazionale.
Le sfide che gli esperti ritengono rilevanti sono almeno un paio. Da una parte, in generale, la necessità di scongiurare ulteriori ondate pandemiche, per non continuare ad accumulare l'uno sull'altro i ritardi nelle diagnosi dovuti alle fasi acute dell'epidemia. E dall'altro mettere in campo sforzi straordinari non solo per ritornare al più presto ai ritmi di screening e di diagnosi pre-pandemia, ma per realizzare quel surplus di controlli necessario a recuperare il ritardo. Per fare in modo che le diagnosi mancanti risultino sì ritardate - il che è ormai inevitabile - ma almeno non vengano del tutto perdute.